01 dicembre 2009

L'eterna guerra contro l'altro

Si potrebbe definire una sorta di Gomorra del razzismo, questo ultimo libro di Gian Antonio Stella. Sin dalla prima pagina Stella imposta la questione fondamentale, quella dell'ossessione feticista dell'identità e della deriva xenofoba: "Al centro del mondo", dicono certi vecchi di Rialto, "ghe semo noialtri: i venessiani de Venessia. Al de là del ponte de la Libertà, che porta in terraferma, ghe xè i campagnoli, che i dise de esser venessiani e de parlar venessian, ma no i xè venessiani: i xè campagnoli. Al de là dei campagnoli ghe xè i foresti: comaschi, bergamaschi, canadesi, parigini, polacchi, inglesi, valdostani... Tuti foresti. Al de là dell'Adriatico, sotto Trieste, ghe xè i sciavi: gli slavi. E i xingani: gli zingari. Sotto el Po ghe xè in napo'etani. Più sotto ancora dei napo'etani ghe xè i mori: neri, arabi, meticci... Tutti mori" (G. A. Stella, Negri Froci Giudei & co.. L'eterna guerra contro l'altro, Rizzoli, Milano 2009, p. 11). Nella fine classificazione etnografica dei vecchi veneziani, riportata da Stella, mancavano però quelli che Kowalski, il vecchio operaio patriottico della Ford (impersonato dal grande Clint Eastwood) che si scontra con gli immigrati asiatici in Gran Torino chiama - con poca fantasia - "musi gialli" e che i "venessiani" di cui sopra - con fantasia educata ittologicamente - chiamano invece "i sfogi" (le sogliole, per la faccia gialla e schiacciata). Questi ultimi ricambiano delicatamente il favore ai veneziani e al mondo intero, ritenendosi non al centro dell'orbe terracqueo come i veneziani (o il popolo veneto, o quello padano, o i cristiani, o i musulmani, ecc.), ma nientemeno che "al centro del Cielo e della Terra, dove le forze cosmiche sono in piena armonia" (ibid.).
Chiunque abbia studiato un po' non dico di antropologia culturale ma anche solo di storia (può bastare anche quella delle medie) sa bene che non c'è popolo che non abbia vantato con qualche mito di fondazione la propria origine divina o la propria superiorità biologica. Ci stanno dentro tutti: ebrei, egizi, persiani, indiani, greci, musulmani, cristiani., cinesi, giapponesi, coreani.. In ogni mitologia arcaica, in ogni religione, è presente questa pretesa di avere diritto su una terra, su un luogo, e quindi di essere al centro del mondo a partire da quel luogo, da quell'omphalos (si veda il cap. 3 "L'ombelico del mondo siamo noi. No, noi"). E, al tempo stesso, la paura della "contaminazione" dell'altro. L'altro porta malattie, infetta, si appropria - più o meno lecitamente - di un pezzo di quel luogo in cui "noi" ci riconosciamo, abbiamo le nostre "radici", la nostra "cultura", insomma la nostra "identità". L'altro ci "espropria" del nostro essere noi stessi, ci "tira fuori" dalle nostre belle comunità, entra nelle nostre case (sporca e ammorba i nostri treni con i suoi odori mefitici o con i suoi cibi immondi, fa la pipì - come esecrava Oriana Fallaci - sui muri delle nostre chiese, ruba i nostri beni faticosamente e onestamente accumulati, stupra e ammazza soprattutto le nostre donne...). L'orrore per quella che Borghezio definisce "l'omologazione mondialista" (p. 12) spinge allora a serrare le fila, a stringersi nel locale (significativamente, nel dialetto del mio paese, "locale" stava per "bar, ristorante", oppure per "appartamento"), a mettere la croce sul tricolore e a proporre referendum sui minareti., le moschee, i crocifissi e i veli, per mettere argine al contagio, per paura di essere "contaminati" dall'altro. Il razzismo ha il vantaggio di essere una "ipersoluzione" (Watzlawick), cioè di essere in grado di spiegare tutto, dall'influenza A alla crisi economica, dalle nuove povertà alla violenza sessuale. La purezza come criterio di appropriazione e di definizione culturale è in realtà una mistificazione tautologica: "puro" è solo ciò che ha avuto rapporti con "noi", "noi" è l'unico criterio per stabilire ciò che è "puro". In altri termini: la definizione di "puro" è puramente soggettiva e arbitraria e non ha alcuna stringenza logica, ma riflette soltanto rapporti di dominio, relazioni di potere (io decido che tu, che non puoi decidere, sei diverso da me e dunque impuro, contaminante e contagioso con la tua diversità; io invece sono identico a me stesso e quindi anche puro, incontaminato, asettico). Non ha nessuna necessità: è una finzione ideologica, un costrutto fasullo, esattamente come "identità culturale" (che sempre più mostra di essere quel che il colonnello Dax in Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick dice, citando Samuel Johnson, del patriottismo: "l'ultimo rifugio delle canaglie"). E' stato detto tante volte ma vale la pena ripetere che, beninteso, questo vale per chiunque (ebrei, cristiani, turchi, cinesi...) rivendichi pseudo-purezze culturali che non esistono da nessuna parte (a parte forse qualche tribù indios amazzonica che non ha mai avuto contatti con nessun'altra popolazione, come questa) e non solo per il Ku-Klux-Klan. La purezza (del sangue, dell'identità, dell'ideologia) richiede inevitabilmente, necessariamente, la pulizia e se l'identità culturale deve restare pura, l'unico detergente è la pulizia etnica. Stella ricorda che il modello della pulizia etnica per eccellenza, la Shoah, fu preceduta dal genocidio dei boeri in Sudafrica ad opera degli inglesi che volevano sbarazzarsi dei bianchi africani (ritenuti "impuri" perché nati da un miscuglio di olandesi, francesi, tedeschi) che provocò una "mattanza": "circa 30.000 fattorie furono distrutte, almeno 120.000 persone, in grandissima maggioranza donne e bambini ... vennero internati nei campi di concentramento dove oltre 20.000 bambini... persero la vita" (p. 18). Una pulizia etnica così spietata, ricorda Stella, da poter essere usata addirittura da Hitler in persona come alibi "per rigettare sul Regno Unito nel 1941 le accuse di genocidio e raccontata nel tristemente celebre Ohm Krüger (di cui però Stella omette il titolo, che aggiungo io) "girato per istigare le SS a vendicare le donne e i bambini boeri", film che al Festival di Venezia del 1941 vinse la Coppa Mussolini come miglior pellicola straniera (ibid.). (Ironia - malvagia - della sorte, i primi campi di concentramento, com'è noto (ma credo non abbastanza), furono creati dagli inglesi in Sudafrica nel corso della seconda guerra boera: si veda qui). O come il genocidio degli armeni (tra uno e due milioni di morti), che servì al nazismo come modello della "soluzione finale della questione ebraica" (Endlösung der Judenfrage). Allora i turchi del Comitato Unione e Progresso dissero che si trattava "di salvare la madrepatria dalle ambizioni di questa razza maledetta [gli armeni] e di prendersi carico sulle proprie spalle patriottiche della macchia che oscura la storia ottomana" (p. 23).
Una simile ossessione per la purezza, la pulizia, la cancellazione delle macchie e via detergendo, ha qualcosa di psicopatologico in senso freudiano. Il paria è l'impuro, il fuori casta che ammorba con la sua sola presenza. Utile in questo senso il cap. 17, "Lo stupidario dei fanatici", un'antologia dell'orrore fisico che l'ideologia razzista di ogni specie e latitudine nutre verso l'altro. Esse mostrano un tratto caratteristico del razzismo, la sua costante attualità: il suo essere "sempre in bilico tra il ridicolo e il mostruoso" (p. 299), uno statuto epistemologico a metà fra barzelletta oscena e mentalità criminale. Stereotipi etnici e sessuali sono una forma di oggettivazione del diverso, dello straniero, dell'estraneo per immobilizzarlo, fissarlo, trasformarlo in una "cosa" (in linguaggio filosofico: reificazione) per poterlo controllare, dominare, per poter esercitare su di esso il proprio potere (per fargli guerra, comprarlo, venderlo, sfruttarlo, additarlo alla pubblica opinione come capro espiatorio, negargli diritti...). Il razzismo è una forma di oggettivazione e spersonalizzazione dell'umano: è riconoscimento negato, ostilità profonda, atavica, ancestrale, ad ammettere che l'ingroup possa essere simile all'outgroup, che si possa condividere, che si possa parlare di uguaglianza fra gli esseri umani. Ancora una volta assistiamo oggi al ritorno dell'ideologia della sopraffazione, dell'annientamento del diverso, al rifiuto del confronto e della relazione all'altro. Forse è giunto il tempo di tornare a recitare la preghiera laica a Dio che conclude il Trattato sulla tolleranza di Voltaire: "Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi, di tutti i tempi, Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l'un l'altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda; fa' che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera. Fa' sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te, insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati 'uomini' non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione".

Nessun commento: